Posts Tagged ‘Torino Centro’

Durezza molle di sabbia

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Le parole l’hanno ripresa. E’ un immobile ritorno. Riappare nella nebbia fra gialle foglie distese. Un guanto nero che si accende di luce. Il sapore di un caffè rubato. Un tuono di parole irrequiete. Il viso che muta prima di un vento di immagini. Affetto soffuso che già conoscevo. Si sofferma nel vuoto, il motore acceso. Uno sguardo immenso tradisce una rotta solitudine. Mi sospinge in lunghi sospiri violenti. Durezza molle di sabbia. Un abbraccio tranquillo bagna il mio volto. L’accompagno in una mite promessa. E’ un progetto di suono fugace. Sonia troverà alberi caduti sul suo cammino. Senza riposo.


Parole vane

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L’alba aveva il sapore di una carezza violenta. Era cemento scavato da braccia spesse. Coltre di vento che spazzava il cielo. Il velo di una bimba araba si affrettava sul selciato. Il sacro palazzo sbuffava di sale in un cielo terso. Io mi chiudevo sospettoso sotto gocce di vernice. Perdevo gola e sangue fra riarsi dubbi. Poi lasciavo che fosse la stanchezza a consolare le mie membra sfrante. Parole vane. Ascoltate a lungo. Una porta chiusa nella profondità dell’animo altrui. Non rimaneva che uno sguardo innocente. Inseguiva incrollabile la mia voce. Nutriva la speranza. Poi naufragavo a notte, fra onde fuggiasche.


Odia un uomo

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Eleonora mi aggredisce pensosa. Odia un uomo. Lo accusa con parole volgari. Tradisce il desiderio di amare. Veste un’aggressività meschina. Non la sapevo tanto violenta. Si nasconde fra le debolezze di un amico. Racconta opache menzogne. Rivela un astio minaccioso. Cercherà vendette notturne. Si racconta con vergogna. Costruisce un dialogo impossibile. La incoraggio senza convizione. La superficialità percepita vorrebbe farmi ammutolire. Il sonno incombe, paralizza la contemplazione di un futuro morto. Il caotico fumo della noia la accarezza. Una pungente umidità ne scolora il trucco. Nasconde fra occhi sabbiosi uno zolfo luciferino. Implora una tradita missione di piacere, poi piange.


Ospite nordeuropea

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Ospite nordeuropea. Lunghe parole di cibo. Freddo consumato, affogato di vino. E’ odore soffocante di tartufo. Una osteria sconosciuta apparsa fra scaglie di pesce. Apre assordanti percorsi in un futuro vago. Segnala gaie reminiscenze toscane. Lega improbabili lucrosi sogni fra scaglie fuse di toma. E’ memoria sopita di un bisnonno cacciatore. Cammina infreddolita lungo il solco tracciato da un grumo di gelato. Mi conduce ebbro fra rotti vetri novecenteschi. Un popolo di poveri si scopre felice ballando al suono di un violino slavo. Sorride, ma non conquista. Si innamora troppo facilmente e non trova spazio. Mi sveglierò accarezzando la luce.


E muore il jazz

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Io sono un foruncolo sul naso. Erompo in ritardo fra facce amiche. Non mangio molto, aspiro le parole altrui. Scorgo incrinature nell’apparente stabilità degli altri. Il vino è troppo agro, ma continuo a berlo. I microfoni si spezzano. Un colore nemico sale sul palco. Gli occhi sorridono di soffocata libidine, gli sguardi corrono dal basso in alto. Si fermano su un seno bianco. E’ un bicchiere d’acqua in un concavo deserto. Piedi nudi invocano il delirio. Mi inseguiranno impassibili oltre il muro dei rimpianti. Le luci si spezzano. E muore il jazz. Correrò nella sabbia. Mi ucciderò di silenziose angosce.


Già se ne rallegra

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E’ un esile giunco. Si ribella ad ogni parola non condivisa. Penetra di uno sguardo fulvo. Non sa vestire, ma in quella trascuratezza sta la sua forza. Perché isola con un sorriso duro e magnifico un’ironia selvatica. Ispira un desiderio di vendetta. Una carezza nuda dopo un secolo di attesa. La goccia di amore velenosa si spande nel petto. E’ tornata imprevista, nell’impossibile disegno di una fuga. Mi provoca per diventare un rogo di follia. Si nasconde in una somiglianza casta e spregiudicata. Non lascia alternative alla mente. Richiama violenta ogni mia debolezza. Italia mi vedrà soccombere. Già se ne rallegra.


E mi fermo esausto

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Ignoro che ora sia. Un riflesso indaco ha turbato l’uniformità grigia dell’orizzonte. Non ricordo da quante ore vago sull’asfalto. E’ punteggiato di emerse pietre. Il centro della città è la periferia fumosa della mia coscienza. Il solo contatto rimasto con l’incompresa animazione dell’intorno. Un freddo sottile ha attraversato la carne, turbando un pensiero insostenibile. Il peso del corpo sulle gambe. Mi immergo muto nel fosco calore della sala colma di persone. E’ un deserto di estranei manichini animati e falsamente sorridenti. Parlo con pareti vellutate, mi abbandono al cigolante monologo del debole tappeto di legno sottostante. E mi fermo esausto.