Posts Tagged ‘Spina 3’

Scendo sottoterra

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Terra accumulata lungo il fiume. Voragini polverose soffocano le tenebre. Le ruote rimbalzano fra strappi di metallo. Accalcano pneumatici su pietre di fango. Il caos avvolge effluvi d’alcool. Mi fermo a contemplare un immacolato ceppo di insalata. Scendo sottoterra. Le note gracchiano fra colonne rosse. Giovani occhi si accalcano sotto un palco. Affogo l’imbarazzo in una birra. Infiniti strati di vernice disegnano gli anni che ho consumato. Una voce cristallina risuona di antiche memorie. Lo sguardo scorge un lontanissimo amico. Lo abbraccio senza ricordarne il nome. Non abbiamo parole da dirci, ascoltiamo insieme. Sembianze incazzate e mute di perduta giovinezza.


Torino non parla

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Targa rumena. Una vecchia auto francese. E’ un pezzo di lamiera che taglia in due la città. Bordeggia gli scavi ferroviari, rimbalza in una buca e scivola verso Ovest. Gli occhi si perdono sui marciapiedi. Un furgone lombardo si ferma in mezzo a un incrocio. Ne scende una puttana. La città lava un lamento di pioggia. Quartiere popolare, ali di piccione. Escrementi ormai corrosi. Risuonano di echi medievali. Sono la lama di un regime aguzzino. La fuga di vergini remote, sospinte dalla paura e dall’affanno del desiderio. Si aprono voragini, lungo le strade. Torino non parla. Qualcuno se la fotte.


Suonava il primo delirio

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La pioggia lava la speranza. Rigenera la resa. Consumo il cuore in vano. Un gesto abolisce la sofferenza. Impossibile piangere. Frammista immemore oscurità. Conato sepolto. Morta illusione. Simmetria divina. Attesa, invocazione. Ali larghe. Metamorfosi. Volto di pietra. Sconcerto. Artificiosa disillusione. Calunnia. Sublime sfogo. Diverse, successive. Incomunicate volgarità del mondo borghese. Esausto rimpianto. Ricordo sbiadito. Assillante disegno. Meravigliata devianza. Incontro solitario. Sbiadita luce. Ramingo esilio. Legno duro. Grandezza intangibile. Orizzonte impercorribile. Godimento infinito. Nomadismo astratto. Senso incontrastabile. Regale lutto. Volgare irrequietezza. Dubbio caduco. Finta follia. Intempestiva volontà. Irriconoscibile costellazione. Quiete metropolitana. Suonava il primo delirio. Poi veloci sono passati gli anni.


Alveari umani

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E’ bello sapere che Torino avrà un nuovo parco. Ma sarà circondato dal cemento. Bordeggiare l’infinito cantiere di corso Mortara è un’avventura di mediocrità verticale. Densi parallelepipedi di mattoni accupano il cielo e l’umore. Muri esangui, assiepate pareti che echeggiano il razionalismo fascista e l’architettura sovietica. Alveari umani. Privi di veri servizi, annidati attorno a barbari centri commerciali. Quante varianti ha subito il Piano Regolatore? Io mi chiedo cosa sarà di quelle case fra venti anni. I vecchi cammineranno ad occhi chiusi. Sogneranno di vivere in luoghi migliori. Così gli alberi si riveleranno inutili simulacri, cresciuti in una piaga marcescente.


Curiosi soltanto

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Deviati lungo un sentiero di morte, errabondi su strade un tempo amiche. Solitari meniamo innanzi il nostro disprezzo. Senza nostalgia dell’altrui uniformità. Curiosi soltanto. E sempre al margine, confitti in interstizi irraggiunti e grigi. Colati sotto una pelle di catrame, ricolmi di memoria. Non vivi, forse sospesi in una posticcia eternità di fango. Narcotizzati da una conoscenza frammentaria, rivomitata nell’abbondanza, ricchi solo di immagini; perciò troppo dubbiosi dell’identità. Ci lasceremo consumare dal silenzio, attraversando un angosciato sentiero di mediocrità, sotto le macerie ferrose di un discriminato compiacimento. E dimenticheremo vicino ad un sepolto abbandono radici scomposte, disperse di decadente follia.


Sputi coprono un’immagine

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Miserevole invidia. E’ un’irriverente appropriazione di sofferenza. Seppellisce la coscienza. Un limbo colmo di rimpianto langue desolato. E’ violato soltanto da ombre in cerca di un oscuro rifugio. Clandestini lordati e nutriti da meticcia violenza. Esseri vaghi riscoprono brandelli di realtà. Non possono capire. Bramano vuote forme di divinità. Abbiamo lasciato loro il vomito ammorbato del progresso. Si modelleranno su noi stessi. Sono corpi percossi di sprezzo. Sputi coprono un’immagine. Così dimentichiamo la nostra molle vergogna. Soffochiamo dubbi angosciati di irremovibile pochezza. Non conosce profeti questo disincanto, ma solo un’ombra pervasa di ruggine. Rilucerà di mendaci illusioni all’alba di domani.


Echeggiano voci di lotta

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Una fabbrica abbandonata inonda la notte.  Confine di sonno. Sotto un ponte l’oscurità si illumina di un soffocato colore arancio. E’ un artefatto di pioggia. Scheletri di cemento abbracciano altiforni congelati nell’oblio. Calpesto vetri rotti, frammenti caduti a terra. Cospargono mezzi seppelliti e rilucenti colline di detriti.  Rifrangono una sommità decadente. Echeggiano voci di lotta. Bandiere infuocate sventolano sospinte da fumi caldi. Sono cucite con fiotti di sangue annerito. Urla insistenti, orgoglio comprato sotto il peso di armi ingrate. Gli occhi curiosi di un bimbo scrutano i segni di un volto antico. Sospirano vivi. In una fossa riempita di fresco.