Fabio mi guardò con occhi di matto. Gli piscofarmaci gli correvano nel sangue. Non mi avrebbe più perdonato che fossi stato io a chiamarli, i poliziotti. Avrebbe preferito che lo lasciassi sfondare l’uscio. Avevamo trascorso molte sere seduti davanti a un portone, sotto la luna. Mi raccontava storie antiche, fatti di sangue inghiottiti dalle montagne. I primi giorni negli Alpini, quando faceva troppo freddo e aveva cominciato a stringersi agli uomini. La vita ricca, fra la Costa Azzurra e Parigi. Poi l’altra, la vita magra di New Orleans, a battere sulle strade. C’è ancora, la sua ombra. A Borgo Nuovo.
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Aveva nascosto una lacrima. Era il sigillo del suo impegno. Lo specchio di una giovinezza onesta. L’intelligenza del dubbio. L’assennato disincanto di chi sapeva di non poter scegliere. Ferma tra una promessa e un impegno misero, aveva dovuto scegliere l’unica cosa certa. Di fronte a lei la mia impotenza, il mio vano senso di ingiustizia. Il narcisistico abbaglio di voler esaltare difficoltà mie. L’incapacità di scavare in pensieri tanto puliti. Il vento spazzava la piazza. Ero sicuro che non si sarebbe arresa. Il peso che avrebbe sopportato l’avrebbe fatta più saggia. La salvezza che cerchiamo verrà dalle donne, senza rimpianti.
E’ un esile giunco. Si ribella ad ogni parola non condivisa. Penetra di uno sguardo fulvo. Non sa vestire, ma in quella trascuratezza sta la sua forza. Perché isola con un sorriso duro e magnifico un’ironia selvatica. Ispira un desiderio di vendetta. Una carezza nuda dopo un secolo di attesa. La goccia di amore si spande velenosa nel petto. E’ tornata imprevista, nell’impossibile disegno di una fuga. Mi provoca per diventare un rogo di follia. Si nasconde in una somiglianza casta e spregiudicata. Non lascia alternative alla mente. Richiama violenta ogni mia debolezza. Italia mi vedrà soccombere. Già se ne rallegra.
I passi corrono nel portico affollato. Ci sfioriamo assenti. L’immagine si ricostruisce in un angolo deserto. Lorena raccoglie i capelli in una sigaretta spenta. E’ l’ombra di un passato non vissuto. Si allunga avvilita su uno schienale chimico. E’ verde disappunto per l’indeterminatezza. Riflette in nuvole assonnate colori decadenti. Un abbraccio freddo annulla la violenza fugace della luce. Seduto sul crinale offeso della città aspetto che il cielo si riempia di una coltre gelosa. Lecco un dito amaro sulla soglia del cortile di un rigattiere. Sono un soffio d’armonica appeso a un verso. E fuggirò all’alba su un treno merci.
Andrea ha voluto che ci fossi, ha condiviso con me i suoi amici. Un raro privilegio. La sua semplicità è folle, ricorda l’ingenuità della mia giovinezza. E’ bellezza assoluta, prima. Non si copre di trucco. Veste di trasognata abbondanza colori tenui. Gioca impietosa, costruisce legami puri. Insegue un discorso e l’altro. Poi si ferma ad affondare gli occhi nei miei. Isola completamente gli sguardi altrui. Mi imbarazza con un abbraccio scomposto. Vorrei esprimere i miei pensieri. Cerco un codice intimo, esclusivo. Invano, le mie parole soffocano nel rossore dei passi non fatti. Fra le pieghe morte di una intelligenza disarmata.
L’Accademia domina nascosta un quartiere apparentemente deserto. Stoffe sdrucite. Cornici spezzate. Inciampo su pietre ricolme di studenti. Litigo con un apparecchio spento. L’erba cresce in un cortile barocco. Torino mi avvolge della sua stupita tranquillità. Mi rinchiudo in un quadrato di sabbia rossa. Trascrivo parole mai dette. Piango l’assenza di un racconto sonoro. Eppur mi basta a ricostruire l’atmosfera di settanta anni fa. Cadevano le bombe, lambivano le opere d’arte e deflagravano oltre il fiume. La città è ancora in fiamme. Brucia sulle spalle di un calciatore. Si riempie di cafoni colorati che galleggiano nelle piazze, su canotti di ferro.
Ne ha parlato Daniele su Amare Torino. A mostrare come potrebbe essere ci ha pensato Fabrizio su Torino Daily Photo. Piazza Maria Teresa soffoca sotto il peso delle auto. Torino tiene sotto scacco una delle sue piazze più belle. E’ il fulcro di Borgo Nuovo. Il centro di quel crocicchio ottocentesco che meglio rappresenta l’afflato risorgimentale della città. Dense colonne neoclassiche, calmo ordine sabaudo. Un respiro di fragili equilibri addossato alla riva del Po. E’ il gioiello che nascondiamo colpevolmente nel nostro seno nebbioso. Quell’area deve essere pedonalizzata. Dall’Aiuola Balbo ai Giardini Cavour. Un grido s’infiamma obliquo. Liberate Guglielmo Pepe.
->Fabrizio Zanelli – Piazza Maria Teresa<-