Archive for June, 2011

Cerco voci spezzate

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La fabbrica della morte spacca la notte. Si distende oscura fra pieghe invisibili. Sprofonda sottoterra, insinuandosi dentro l’asfalto. E’ nascosta da arbusti clandestini. E’ ruggine sottratta alla luce. Si impone in un silenzio interno. Rotte lamiere sfilano al suo cospetto. A contemplarla non resta che l’irrequieta solitudine deserta del parco. Nemmeno le prostitute si soffermano più fra le sue spoglie. L’intera città l’ha rimossa. Ora è soltanto un buco in una mappa immobile. Mi fermo ad osservarla. Cerco voci spezzate. Mi arrampico su spente ciminiere. Mi addormento fra le pieghe di un cancello. Sono finito, e gli operai con me.


Hanno paura di noi

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Torme di madri piangono l’ennesimo cantiere. Attendono trepidanti una nuova settimana. Lamentano l’inattesa deviazione di un autobus dal sentiero abituale. Una secolare inefficienza ci ha fatti tutti conservatori. Ecco, dice una, ho dovuto scavare a lungo nella rete, per trovare la nuova mappa. L’hanno nascosta. Hanno paura di noi. E’ vero, è vero, gridano le altre. Nel frattempo, la città continua a respirare di nuda immobilità. Neri, maghrebini e slavi sprofondano sotto terra, lavorano al buio fra bagliori elettrici. Uno di loro si alza impaurito, fugge e si ubriaca. Si spinge sino alla periferia, scende dall’autobus. E insegue follemente qualcuno.


Tutto questo non basta

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Sono false lusinghe. Giungono a sera tarda, dalla bocca di un amico. Immaginifiche proposte di un impegno in terra lontana. La consapevolezza di essere pronto per affrontare la sfida, ma sapere che non c’è nulla in cambio. Ci guardiamo allo specchio. Da anni vaghiamo sepolti nei meandri di una città morta. Dal basso ci riconosciamo senza indugio. Sappiamo di ognuno il valore e il peso. Ci soccorriamo a vicenda. Sostituiamo ai finti onori la dolce bellezza dell’onestà. Eppure, non è sufficiente. Tutto questo non basta. Nascondiamo a noi stessi un’estrema consapevolezza: è proprio per questo che non serviamo al sistema.


Sputa fuoco di bocca

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Sputa fuoco di bocca. E’ un rimbalzo folk di scurrile poesia. Si ammorba di frammenti angosciati. Coltiva una corte disperata. Strabuzza occhi, gonfia guance. Muove voce dallo stomaco in lunghe improvvisate spezzature. Ha violentato una vecchia chitarra. Ne spuntano tubi di gomma. Un contrabbasso lo sostiene frullando. Un vago tamburello lo colora. Lo segue un percussionista abbarbicato a una bici. E’ il diavolo buono di Bulgakov. Tiene il palco con ferocia. Scalda un pubblico folto con voce sicura. Ha il destino del successo scritto nel sangue. E non fa paura, perché è semplice. E’ il capo migliore della nostra bottega.


M’hanno rubato il portafogli

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Soliloquio onirico. I capi di Stato siedono attorno a un tavolaccio di campagna. Le scogliere del basso Tirreno li osservano. E’ rumore di festa, ebbrezza di culi nudi sulla pietra. Discutono del destino del mondo, ma non sono che un salotto televisivo fra le cicale addormentate. La plebe li mangia, vorrebbe prenderli a pugni. Li abbandono svogliato, non mi appartengono. Mi avventuro fra le strade deserte di Palermo. E’ una cartolina degli anni Trenta. Un sole immobile, grigio che sempre ricorre nel sonno. Salgo una scala di spigoli. Compro pesce e faccio elemosina. M’hanno rubato il portafogli. E mi risveglio.

Balon

->_ankor – Balon


Non è un discorso serio

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Vagheggio di politica con gli amici di sempre. Non è un discorso serio. E’ soltanto l’abbrivio di una conversazione altrimenti morta. Giovanni si distrae fra i capelli corti di una donna seduta di spalle. Io affogo in un brodo impazzito di zucca. Le parole non puntano in nessun luogo. Stiamo invecchiando, assopiti nei nostri egoismi. Cibi, concerti e cinema. Pare un volume di economia al contrario. Chiudiamo in silenziose idiosincrasie le velleità dei desideri. Non vogliamo più cambiare il mondo. Lo accettiamo come un ghiacciolo ciucciato. Sognavo odore d’anice. Era un delirio di onnipotenza. Si è perso nella mia ignoranza.


Deglutisco vino acido

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Carni. Mucose di vacca appese ad un piatto. Calore intermittente, caffé corretto. I fratelli arabi si assiepano in un bar. Vivono isolati in un paesello sulla collina. Avanposto settentrionale del Maghreb. Si scambiano sorsi di té fra gli italiani ubriachi. Un gruppo di giovani si consuma nel monotono clamore dell’elettronica. Io cammino a piedi nudi sul terriccio. Una lapide ricorda i morti di Russia. Mi addormento in una forca di sangue. Sono fermo in una vecchia zona industriale. La solitudine mi avvinghia con spietata passione. Cerco inutilmente le radici dell’erba. Deglutisco vino acido. Risalgo le coperte e dormo. Non sono.